lunedì 19 novembre 2012

Scene madri 3 OLIVER TWIST

ALTRA MINESTRA

Una fame disperata conduce Oliver Twist, nove anni, (Oliver Twist; or, the Parish Boy's Progress di Charles Dickens, 1837 – 39 ) al cospetto del cuciniere della workhouse, il lager vittoriano che sfrutta il lavoro dei bambini senza famiglia. A nome di tutti deve chiedere, Oliver, una seconda ciotola di zuppa.

Suo padre, mai saputo chi sia. Sua madre si è trascinata sola fino a un anonimo orfanotrofio ed è morta subito dopo il parto. Ci va lui a chiedere altra minestra, perché tra tanti infelici hanno fatto a sorte e indovina: Oliver lascia il suo posto e attraversa il pavimento di pietra della mensa. Vorrei vedere, a nove anni, chi si sarebbe mosso di suo. Vorrei proprio, proprio vedere, davanti al rozzo che governa il pentolone chi saprebbe dire con più tragica delicatezza: - Please, sir, I want some more.
L’inserviente non crede alle sue orecchie: che cosa? E ripete, il piccolo, stupito del suo stesso ardire: please, sir, I want some more, altra minestra chiede.Tutto fila per il peggio, ma Oliver ha guadagnato definitivamente il ruolo del protagonista. Il pubblico ammutolisce già al suo esordio, e qualora lo spettatore si mostri insensibile Oliver ripete fermo la battuta. Intanto, bastano poche righe per capire che almeno per il momento non gliene va bene una. Lo acchiappano e lo portano da quelli che comandano. Nessuno prova pietà. L’unico commento, formulato da un tizio dal candido panciotto è “ Quel ragazzo finirà impiccato “. Nessuno obietta al gentleman autore di tanta umana sintesi. Anzi, decidono di liberarsi subito del ragazzino. A chi glielo leva dai piedi il prima possibile offriranno pure un compenso. E siamo appena al secondo capitolo, di cinquantatré.
Eccolo alla ribalta, il puro, vulnerabile, intrinseco innocente che sembra fatto per le disavventure. Per fortuna, tanto gravose saranno le sue esperienze quanto mirabolante sarà il premio finale.
Il mistero della sua nascita sarà svelato, secondo quella magica formula dickensiana per cui l’eroe, di frequente affetto da solitaria deprivazione infantile, finisce con lo scoprire affinità e legami con il più estraneo degli estranei; perché tutti ci apparteniamo, tutti abbiamo un filo in comune.
Questa filosofia di fondo permette allo scrittore una gestione delle vicende rocambolesca, a strati, a rami, verbalmente dilagante, zeppa di eccessi. Calmi, va tutto bene. Tutto si sistema, e ogni cosa il suo posto prenderà.

Non una ma due forme di generosità, so di avere incontrato nel libro, e non scordo.
La prima, più immediata e sociale, è la forza buona che ristora Oliver e i suoi lettori lungo la via, incarnandosi in persone di ogni età e ceto: c’è il vecchio magistrato che lo sottrae al destino di spazzacamino; c’è il fiducioso Mr. Brownlow che se lo prende in casa senza conoscerlo; c’è Nancy, ragazza perduta che si perde per salvarlo. Questi personaggi non fanno professione di intenzioni, ma di azioni determinanti. Ti dicono che puoi scegliere di essere duramente concreto almeno quanto è dura l’assenza di compassione.
La seconda forma di prodigalità sembrava allora puramente rivolta al mio piacere di giungere alla fine del romanzo sperimentando una felice sazietà. Chiuso il libro, ero grata per avere ricevuto tanto nutrimento. Ma non è stato così semplice, non avevo fatto i conti con la ricetta di Charles Dickens. Lui ti invita alla sua tavola per sempre. Sei preso, sei suo. I personaggi e i suoi convinti lettori si appartengono a vicenda. Tu leggi, rileggi e nel frattempo ti prenoti per un’altra delle sue storie. Così, in tanti ci ritroviamo, mai paghi di un cibo di unica qualità: per piacere, Mister Dickens, altra minestra.



creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 07/12/2009 12:50

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