venerdì 23 novembre 2012

PAESE PIETRA PITTURA su Vincenzo Manca pittore




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Dal catalogo della mostra VINCENZO MANCA OPERE 1937 - 2009  a cura di Caterina Virdis Limentani ( Sassari, palazzo della Frumentaria, aprile 2010).       
                                                            






giovedì 22 novembre 2012

sul romanzo con Claudio Morandini


Dopo la lettura del romanzo  L'accademia degli scrittori muti  lo scrittore Claudio Morandini mi ha proposto alcune domande a distanza, pubblicando le risposte sul suo sito Iperboli, ellissi:


C.   Nel tuo romanzo si coglie subito un'attenzione meticolosa per la lingua. La tua scrittura è insieme estremamente precisa e intensamente evocativa. Numerosi riferimenti alla lingua, alle parole, alla scrittura, innervano anche la trama del romanzo. Da dove nasce questa particolare esigenza espressiva?

A.   Io direi semplicemente che l’attenzione c’è. Lavoro con puntiglio per ottenere aderenza alla scena, al tono, al tipo di lessico e andamento di discorso di ogni personaggio, ma non ho questa percezione di precisione della mia scrittura realizzata.Rileggere e riscrivere è uno degli aspetti della composizione che amo di più, alimentato da un elemento biografico: dove scrivo, abita permanente il tema dell’artista autodidatta con poche connessioni sociali. È quel che mi sento. Questo significa che certe volte mi perdo nel controllo degli esiti, e raffreddo la pagina. A volte mi manca, la frequentazione, l’abbrivio di qualcuno “ passato di là” con cui confrontarmi direttamente. Questo vuoto riguarda la narrativa. Per il teatro di base, invece, ho scritto e scrivo copioni con animo più disinvolto, per laboratori con giovanissimi. Ma non sono cose davvero mie, è il gruppo, così penso. Lo stesso per la scuola: come insegnante, ho collaborato con agio per molti anni a una rivista specializzata sulla pratiche didattiche, dove tra l'altro ho imparato molto rispetto alla redazione dei testi, alla revisione, all’economia nella comunicazione.
L’aspetto di pulizia mi piace sempre come intenzione, la cosa mi dà parecchio da fare. Non è sempre un bene: ho la tendenza a togliere troppo,  per dare centro a quel che secondo me è essenziale. Così divento ellittica; oppure mi prende una certa presbiopia stilistica e strutturale, guardo tanto la frase, il paragrafo e perdo di vista l’insieme. Le mie prime stesure possono essere faticose per il lettore, per non dire deludenti. Lo dico per provata esperienza.


C.    Come ti senti in rapporto con il panorama letterario, o narrativo, o editoriale di questi anni?
A.     La mia casa editrice attuale si trova a Nuoro. A Roma, dove vivo, non frequento scrittori. Ho amici artisti, ma non si occupano di narrativa. Per citarmi, sono una scrittrice alquanto muta, nella società letteraria.
Mi piacciono gli incontri in cui si va a progettare o realizzare qualcosa, e quando capitano sono disponibile. Mi piace agire socialmente per portare non me, ma occasioni umane di lettura e scrittura. Mi piace fare la maestra, per questo motivo, e non solo. Sono attratta dalle persone che sono storie, lettori e scrittori. Scruto i bambini: che cosa saranno?
C’è più di una strada che mi ha sperso, se sono arrivata a esordire a 47 anni, quasi venti anni dopo aver lasciato la Sardegna. Eppure in una certa lettera di addio dicevo vado a Roma perché voglio fare la scrittrice. Il percorso ha compreso - mi è costato - anni e anni dedicati all’impegno personale e lavorativo su altri fronti. Ho trovato scuole che mi hanno consentito di fare esperienze molto variegate, con bambini generalmente interessati allo studio; ho fatto parte di gruppi attivi sia sulla sperimentazione didattica che sulla gestione di istituto. Tutto questo forse non mi induce a sentirmi parte di conversazioni e rituali che sono di mera esposizione di sé. Mi piace concretizzare. E poi una constatazione: insegnare orienta la giornata e l’energia verso certi orari, gli artisti osservano ritmi notturni che non posso seguire tanto. Ma l’assenza del circolo dei pari mi protegge dall’eccesso di egocentrismo. Sento che la scarsezza di tempo mi serve, come sento che mi strozza. So che il lavoro limita la mia libertà espressiva, ma protegge la mia dignità di persona e la mia autonomia. Vedremo. Mi piacerebbe scrivere uno stesso libro con altre persone. Riguardo all’atto dell’ideare, mi sento molto ricca. Ho progetti, alcuni non di narrativa vera e propria. Per quanto riguarda il panorama italiano, non sono una lettrice informata. D’altronde non mi interessa esserlo. Ho i miei preferiti, indubbiamente, che rileggo d'abitudine per rifinire il lessico e aiutare l’orecchio, quando cerco la mia musica. Seguo qualche uscita, anche con attesa, sebbene i miei gusti primari siano di marca anglosassone - posso leggere anche in lingua originale. Vivo di percorsi associativi, che intreccio con visite in libreria e qualche lettura di inserti specializzati. Confesso che raramente prendo un libro perché qualcuno me lo consiglia. Mi faccio guidare dalle mie passioni e da una certa forma di caso, che caso non è.


C. In molte pagine moduli il senso del mistero e dell'attesa, con un amore per i dettagli che non appartiene più alla nostra epoca piuttosto impaziente. Quali sono i tuoi modelli letterari?
A.  Per l’”Accademia” penso per prima cosa alla produzione vittoriana, e immediatamente pre-vittoriana. Non parlo solo di letteratura, ma di saggistica, di architettura, abbigliamento, giardinaggio. Sto estendendo e rimodellando in continuazione questo campo di ispirazione, che ora mi accompagna in modo diverso mentre scrivo un nuovo libro. Cercherò di spiegare cosa intendo elencando alcune caratteristiche, senza specificare gli autori, tuttavia ricordando che nel gruppo ci sono autrici che sono per me un esempio di vite scritte ( parole non mie ), che vanno a fondersi nei loro libri.
-    Molteplicità di storie e personaggi, che nel corso del tempo entrano tutti in relazione. Senso
sociale interno al libro. Quindi, anche studio della trama, in cui sono importantissimi certi giochi del caso.
-    Assetto teatrale. Dialoghi significativi, dinamici. Ritmo, perciò teatro, e musica.
-    I luoghi sono personaggi, le cose sono storie, i nomi sono profezie. Tutto è funzionale:  la descrizione, ogni parola, è vicenda che avanza, nella percezione del personaggio che la porge, nella strategia del narratore che la tesse.  [ Continuo a non condividere, quando a scuola un insegnante di italiano dice: “ ora lavoriamo sulla descrizione, poi passeremo al testo narrativo”: che significa?]
-   Intreccio e interferenza di scritture diverse. Voci. Lettere, biglietti, diari, memoriali, dialoghi, ma anche oggetti. Gli oggetti scrivono.
-  Tipi di personaggi “ forti” - donne soprattutto - dentro contesti apparentemente deboli o ordinari. Per faccende di
carattere o per perigli della sorte, non succedono cose di tutti i giorni. E che sempre, sempre, il lettore possa comunque dirsi :perché no?
-     Persistenza e insistenza di un senso continuo di proibizione o inibizione che è narrazione in sé, conflitto. Le famose gambe dei tavolini coperte fino al pavimento. Io, come scrittrice, mi colloco sotto quel tavolino. Un luogo in cui ascoltare inascoltato i passi di altre gambe coperte e asservite. Tutti restano portatori della propria nudità, colpa o avventura che sia.
Se posso, io scrivo preferibilmente scalza.



C.    Si avverte in molte pagine una sorta di impegno pedagogico, soprattutto nel carattere della protagonista, nel suo modo di porsi con gli altri. È un riflesso della tua professione di insegnante, o anche, come dire, una tua idea di letteratura?
A.   L’ho già detto, a me l’impegno piace, mi piace vedere le cose realizzate, anche se lavoro in un ambito in cui il metodo e la cura sono amministrati nella crescente indeterminatezza. Mi accorgo però che continuo a rigenerarmi non grazie al senso del dovere o alla soddisfazione del risultato ma in virtù della frequentazione di un mondo, quello creativo.
Nella mia storia parlo di sopravvivenza, di salvaguardia di sé come nucleo anche disordinato ma libero. Parlo anche di una cosa che conosco altrettanto bene, che è la necessità pratica di gestire la propria esistenza in un terreno sociale che ha le sue regole, con le complicazioni che si verificano quando quelle regole non rispondono alla nostra visione.
Sono convinta del valore civile dell’istruzione, vedo la lettura e la scrittura come alleati per dare relazione con sé e visione dell’altro. Le parole vanno dette, la cosa difficile è creare e mantenere con esse un rapporto che onori il senso di mistero generale che percepisco, anche il senso di impotenza e di indefinitezza. In questo senso non ho assolutamente la sensazione che quello che scrivo sia subito appropriato, né che però muoia alla nascita; non provo dispiacere alcuno nel separare da me i miei scritti. Non vedo l'ora che siano pronti perchè qualcuno li legga. In questo senso, la poesia di Emily Dickinson  A word is dead è la mia idea di letteratura, ma anche di lavoro.
Teresa vuole offrire questa opportunità di istruzione ai ragazzi perché semplicemente, quella è stata la sua opportunità. Perché, da scrittrice, crede nel potere superiore della parola. C’è poco da fare, ognuno tende a insegnare quello che sa, anche se dovrebbe insegnare quello che non sa.
Maddalena ha avuto modo di elaborare un pensiero di livello diverso, sulla molteplicità delle chiavi offerte alle persone per realizzare la propria esistenza. Non è quel tipo di narcisista che vuole che i figli divengano artisti. È una persona cresciuta in cattività che desidera la libertà , propria e altrui, una libertà che non passa attraverso il lavoro come per Teresa, ma attraverso il tempo. È attraverso il tempo che Maddalena si evolve come artista, che ritrova anche lo spazio, la formula visiva appropriata.
Perciò, scrivendo o tacendo, la mia idea di letteratura non è altro che l’idea su quel che le parole e i fatti e le cose dischiudono o imprigionano. Le parole è appassionante cercarle, trovarle, e dirle, anche se ci si mette un mucchio di tempo.


A word is dead
When it is said,
Some say.
I say it just
Begins to live
That day.

Emily Dickinson

DA TANTO PADRE racconto sul sudario di Garibaldi

     Da tanto padre fa parte di un insieme di scritti composti da più autori in occasione di una mostra dedicata alle memorie storiche postrisorgimentali  dell’Archivio Pittorico della città di Sassari di Enrico Costa, dal titolo Reliquie di Sardegna (2010).


Le organizzatrici Simonetta Castia e Stefania Bagella avevano letto il mio romanzo  L’accademia degli scrittori muti, dove è palese l’inclinazione per gli scenari e i toni ottocenteschi: mi hanno proposto l’invenzione di un racconto sul lenzuolo che ha avvolto il corpo di Garibaldi, ora custodito nella Biblioteca del Comune di Sassari. Da loro ho ricevuto indicazioni dedicate e piena libertà di immaginare.

   È curioso l’arrivo del sudario a Sassari. Nel viaggio di ritorno dai solenni funerali di Caprera, il lenzuolo segue “inavvertitamente” il drappo da lutto offerto dal Municipio; in seguito a ufficiale richiesta, la reliquia è donata alla città dalla famiglia del grande estinto. Tanto celebrato quanto negletto, nel tempo il telo scompare, riappare: infine eccolo nel 2007, restaurato per il bicentenario della nascita di Garibaldi. È invece fantasma, ancora, quel velluto nero foderato di tessuto bianco che il Comune fece acquistare e confezionare per la triste occasione, il velluto sul quale nottetempo le dame della città ricamarono in argento: Sassari a Garibaldi.

  Chi poteva averlo preso, il lenzuolo, e perché? Qualcuno che lo voleva unicamente per sé, ho pensato. L’ammirazione feticistica per l’eroe non mi interessava come movente: meglio una passione da cui sarebbe scaturita un’azione individuale significativa. Per nutrire quel desiderio, occorreva una creatura protagonista alla quale fosse sempre stato vietato ogni accesso alla vita di Giuseppe e che avesse la fortuita possibilità di entrare in possesso di una delle sue ultime cose. Una persona senza nome, senza privilegi, ma dinamica e audace in quell’avventura tra Sassari e Caprera.
  A quel punto dell’indagine è bastato leggere i documenti che avevo a disposizione: 4 giugno 1882, il Comune delibera, il sarto confeziona. La risposta era in quella notte di giugno trascorsa dalle signore della città a ricamare. Le signore sono signore, ho pensato, non fanno tutto da sole. Ecco chi sarebbe stata la protagonista. Una cucitrice. Una figlia segreta.

    Ho integrato vero e inventato, come osserverà chi legge il racconto. Ho mescolato. Nel lavorare con elementi storici, c’è sempre molto spazio. Anzi, i dati certi sono un aiuto, fortificano la vicenda, e talvolta – come nel caso della scatola con i capelli di Garibaldi, prelevata dalle memorie della figlia Clelia – sono degli alleati potentissimi. Il divertimento è rispettare i punti fermi segnati dai fatti e scrivere tra le righe.

   La conclusione  “obbligata” della storia del lenzuolo, destinato a diventare cosa pubblica di Sassari, mi ha aiutato a non divagare troppo sulla costruzione dell’episodio privato della cucitrice, che ho racchiuso tra due eventi registrati da Enrico Costa: la prima visita di Garibaldi a Sassari, nel dicembre 1854, e le esequie del giugno 1882, alle quali lo scrittore partecipò in prima persona.

   Volevo una protagonista più moderna del suo mito, più garibaldina di Garibaldi. Non il tipo di donna che in silenzio si cuce addosso il ricordo. Quel tipo l’ho rappresentato con la ragazza sua madre, che agisce e reagisce in modo fisico, che si sente in colpa, si nasconde. Speranza, la figlia naturale del Generale, è più evoluta. Non si vergogna di ciò che è e di ciò che fa, ma è stata quella mamma ombrosa e fuggiasca a crearle un futuro, affidandola all’intelligenza vicaria della signora buona proprio nel momento opportuno.

  In un contesto ufficiale di padri della patria e di alta imbalsamazione ho scelto di parlare di madri amorose e oggetti umili, ma vivi. La forcina per i capelli, il fazzoletto, il filo da ricamo, il cestino. Ho desiderato una narrazione anti-epica e mi è venuta voglia di costruire anche materialmente una versione alternativa dell’oggetto sudario altrimenti così intoccabile, così extraquotidiano, così umoroso di sepolcro.


  Ho creato un libro-lenzuolo, con la stoffa vera al posto delle pagine, come se Speranza per gioco e per affetto usasse i rimasugli dei materiali di cucito per fermare il ricordo, illustrandolo a modo suo con fili e ritagli di tessuto.






Annalena Manca, marzo 2011

LOVE FLIES - racconto breve

LOVE FLIES fa parte della serie di 10 racconti brevi MONDI IN UNA PAGINA, curata dallo scrittore  Arturo Robertazzi e pubblicata nel suo sito 

Clicca qui per leggere:

http://www.arturorobertazzi.it/wp-content/uploads/2010/11/LOVE-FLIES.pdf

il romanzo




Settembre 1901, entroterra di Napoli. La giovane istitutrice Teresa Senzabene, in cerca di impiego, giunge al castello di Falcialunga. Trova un edificio palladiano innestato su mura medievali, in mezzo a un parco dall’insolita architettura. Il barone Filippo e la baronessa Maddalena hanno cinque figli tra i quattro e i diciassette anni, ma il lavoro offerto non ha nulla a che vedere con l’insegnamento. Teresa dovrebbe  ricostruire - e scrivere - la storia della dimora e dei suoi artefici, l’avo Gaetano e la seconda moglie inglese, Lady Daphne. Alla vista di un particolare quadro, la giovane accetta. Presto comincia a subire il fascino di Donna Maddalena, dotata di un ambiguo talento per la pittura, dei suoi eccentrici figli  e del solitario cugino Bertolt Kant. Come ogni abitante di Falcialunga, anche Teresa custodisce un segreto: L’accademia degli scrittori muti, il suo manoscritto incompiuto, che si unirà alle sorti della famiglia per viaggiare fino al nostro presente.


trova il libro

in formato cartaceo  http://www.edizionimaestrale.com

google libri  http://books.google.it/books/about/L_accademia_degli_scrittori_muti.html?id=oOnnGAAACAAJ&redir_esc=y

e-book kindle  http://www.amazon.it/Laccademia-degli-scrittori-Narrativa-ebook/dp/B006AVQ7H8/ref=sr_1_1?s=digital-text&ie=UTF8&qid=1353595465&sr=1-1

e.book feltrinelli  http://www.lafeltrinelli.it/products/9788864290645/L%27accademia_degli_scrittori_muti/Annalena_Manca.html




lunedì 19 novembre 2012

Scene madri 7 LA PIETRA DI LUNA

LÀ SOTTO ( La pietra di luna )


Yorkshire, Shivering Sands, metà del 1800. Due lingue di roccia si annegano nella distanza fronteggiandosi e in mezzo vi è la più orrida distesa di sabbie mobili della costa. Al cambio di marea, in certe stagioni dell’anno qualcosa accade là sotto e fa rabbrividire l’intera superficie. Nell’anno 1972, quando la RAI mandò in onda lo sceneggiato La pietra di luna diretto da Anton Giulio Majano, quelle sabbie tremanti erano una polenta grumosa che io fissavo atterrita e incantata. Se non le rivedo bollire poco ci manca; respirano, nel ricordo del contrasto tra buonsenso e attrazione. Una voce che dice stai lontano, una voce che dice rimani, avvicinati, guardami. Leggimi.

La pietra di luna (The Moonstone, di Wilkie Collins, 1868) è un grande diamante indiano dal venefico influsso. Un inglese senza scrupoli profana il tempio dove è custodito e se lo porta in patria. Qualche anno dopo, nello Yorkshire appunto, la bella Rachel Verinder riceve in eredità la Pietra dalle mani appassionate di Franklin Blake. È amore, ma subito dopo qualcuno entra nella stanza di Rachel nel cuore della notte e ruba il gioiello.  Il giorno dopo miss Verinder lascia Franklin, senza spiegazioni. Franklin vuole luce piena sulla inspiegabile scomparsa della Pietra, e rivuole Rachel.
Che tenacia, ma che ingenuità, Franklin, lo scopriremo, è vittima inconsapevole del laudano e della mala intenzione del suo rivale in amore, Godfrey Ablewhite.
Con Blake si schiera Betteredge, scrupoloso maggiordomo di casa Verinder. Con la forza della ragione è schierato il sergente Cuff, stravagante prototipo del detective rispettoso del metodo e dei dettagli, che coltiva le rose e la soluzione del caso fino alla fioritura. È Betteredge a descriverci l’accaduto a partire dal suo diario; è lui che per primo ci conduce alle Shivering Sands. Ha notato che da quella spiaggia inquieta è attratta una cameriera di casa, Rosanna, carattere cupo e spalla deforme. Là sotto lei andrà a finire. A tempo debito, la naturale marea degli eventi offrirà una lettera rivelatrice.

La materia instabile e fascinosa delle Shivering Sands è anch'essa lunare. È infida realtà da leggere. È il libro poliziesco. Una superficie che nasconde e invita, soglia verso un sotterraneo rischio, una sfida a osservare, esplorare, affrontare. C'è paura, c'è logica. A volte si fugge, a volte si muore, a volte ci si salva.
Questo e altro La pietra di luna racconta: la natura pura e risplendente del diamante e dell’acqua non li rende perfetti, sono tanto letali quanto miracolosi. Dipende. Racconta che la società può essere intelligente e incosciente, che la verità può essere alterata e sepolta, che ci vogliono tempo e indipendenza di pensiero per comprenderla; dice che la vita è fatta di pezzi eccentrici, che la visione estrema data dall’amore può alterare e può salvare, a seconda.

Il pericolo, resta vero, ha un suo timbro suadente. Il brivido induce in tentazione, il mistero promette meraviglie. Bevimi, dice l’etichetta sulla bottiglia di Alice a Wonderland. E la bambina beve. E Franklin prende il laudano, e noi ci immergiamo nel romanzo pericoloso e tentatore, con una voce che dice scettica "stai a distanza" e una voce dal buio che invece dice "vieni". 

 



creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 23/04/2010 19:34

Scene madri 6 I RAGAZZI DELLA VIA PAL

LE SCARPE FAN CIK CIAK  ( I ragazzi di via Pal )

La mia scena preferita del romanzo I ragazzi della via Pal (A Pál-utcai fiúk di Ferenc Molnàr, 1907 ) si svolge in territorio nemico. Ernő Nemecsek, nove anni, nascosto su un albero dell’orto botanico di Budapest ascolta il falso amico Gereb che assolve al suo ruolo di spia delle Camicie Rosse, li consiglia su come conquistarsi il grund, il cortile dei giochi. Avrebbe dovuto restare a casa, Nemecsek, perché per recuperare la bandiera del gruppo si è ammalato a causa del freddo, ma non ha obbedito. Potrebbe restare zitto, Nemecsek; anche perché la sua Società dello Stucco, ingiustamente, l’ha appena proclamato traditore; ma quando Gereb afferma che nella Società non ci sono ragazzi di fegato Ernő si palesa e si consegna all’avversario: - Ce n’è, invece!
Finora era esitante, Nemecsek, implume. Adesso basta. Il capo Feri Ats intuisce la stoffa del valoroso e pronto gli propone un cambio di banda.
 - Io, mai!
Feri allora torna spietato, sprezzante. Picchiarlo? Troppo facile. Condanna l’ostaggio a una punizione bassa di grado, alta per ridicolo: un bel bagno nel laghetto, ecco che cosa. I due fratelli Pàsztor eseguono l’ordine e le scarpe e i vestiti di Ernő si intridono di quell’acqua gelida della sera che gli sarà fatale.
Durante il supplizio Gereb il traditore fa eco agli sghignazzi e alla fine chiede a Nemecsek se gli è piaciuto.
- Sì, mi è piaciuto – rispose quasi sillabando le parole. -  Ad ogni modo non avrei voluto essere al tuo posto a far le beffe a un ex-compagno indifeso che si trova nei guai. Preferirei restare immerso nell’acqua fino al collo anche un anno intero che complottare col nemico ai danni di coloro che mi credono amico. (…) Lo sapete bene che avrei potuto evitare il bagno, bastava accettare il vostro invito. Ma non ho voluto e non voglio venire con voi, mi potete affogare nel lago, potete picchiarmi a morte, scotennarmi se volete, ma io non sarò mai un traditore come… come quello là…
Nemecsek emerge da quel lago lavato di ogni timore, rovente di ideali e di febbre. Lascia il campo da valoroso, Feri Ats lo comprende. Comanda il presentat’arm, ora che il piccolo se ne va, intoccabile tra i prepotenti e i gregari.
E mentre le punte di stagnola brillavano nel chiarore della luna, i ragazzi serbarono un silenzio assoluto. Si sentirono soltanto  i passi di Nemecsek che rimbombavano sul ponte, allontanandosi. Poi una specie di cik-ciak, di rumore inconfondibile prodotto da uno che cammina con le scarpe piene zeppe d’acqua. Infine nemmeno quello.
Stucco e stagnola, bandiere, bastoni, stracci. Parole piccole: sì, no, mai. Cik, ciak. Elementi minimi che uno può supporre di usare senza impegno e senza guadagno concreto; oppure può crederci, prenderli sul serio, farne esperienza.
Credere non serve a vincere ma a vivere, c’è scritto nel libro. Ho pianto tanto per Nemecsek, in me ha lasciato la sua traccia. Passi saturi di violenza e sconfitta, ma dal suono dignitoso, distinto. Ho cominciato a chiedermi allora come sarebbe stato osare e resistere a mia volta, provando a camminare con le lacrime nelle scarpe, con la paura fin dentro le ossa.

creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 13/04/2010 00:09

Scene madri 5 PICCOLE DONNE

A me sembrava impossibile desiderare di essere qualcun'altra. Delle quattro sorelle March di Piccole donne, (Little Women, di Louisa May Alcott, 1868) né Meg, né Amy, né Beth. Jo era quella irresistibile.
Le manca sempre qualcosa. Non sta seduta, ma sdraiata. Parla con la bocca piena. Ha guanti macchiati, vestiti non nuovi; rompe i lacci delle scarpe, si siede sul cappello. Se chiede un regalo, sono libri. Se ha tempo per sé, sono libri. Ci piange sopra, ci vive dentro. Li interpreta, a guance rosse, a voce alta; con le dita macchiate di inchiostro prova a crearli nel suo regno, la soffitta. Per trono ha un divano a tre gambe, come unico ornamento una folta chioma di capelli castani che detesta acconciare.
Sono altre, le belle di casa March. Sono altre, le bellezze di Jo.
Schietta di natura, davanti agli obblighi di società si fa da parte per guardare di traverso. A una festa, dietro una tenda troverà un coetaneo simile e dissimile, amore adolescenziale primo e sbagliato. Sembra un incontro tra timidi, ma no. Theodore Laurence detto Laurie, rampollo di buona famiglia, è il finto ragazzo della porta accanto: è solo alle prime armi. Oltre il nome ha bell’aspetto, pecunia, brio, un tratto di ennui. Jo lo ascolta a bocca aperta e a tasche vuote. Che poi, se pure a casa March ci fossero i mezzi chissà se potrebbe fare ciò che le interessa, che è scrivere. Se si oscura dietro la tenda, se si chiude nella soffitta, Jo, è perché ha bisogno di un osservatorio, e di un laboratorio. Altro che timida, cerca un punto di vista e un metodo. Altro che dietro, è fin troppo avanti.

Quando sei mezza bambina e mezza ragazza, stai a sentire certe voci con particolare dipendenza e apprensione. Se da un lato desideri tapparti le orecchie e cominciare a fare delle scelte tue, è difficile riuscirci. Gli altri contano. Gli estremi predominano. I giudizi sono feroci, la solitudine è roba da chiodi e pane quotidiano, contemporaneamente. Ognuno ti dice la sua: la società dice, il cuore dice, i genitori dicono, le amiche dicono. A furia di ascoltare, ti confondi.
Anche Jo sente le voci, eppure non perde se stessa. Nel mondo familiare e sociale stramato dalla guerra civile, cuce la propria bandiera con la carta su cui scrive. Dapprima imiterà, attratta dall’enfasi e dal sensazionalismo. Si accorgerà, col tempo. La vita le guiderà la mano.

In certe trame da Ottocento le stanze all’ultimo piano sono spesso quartiere per le donne senza adeguato senno. Si tratta sovente di signore che non conviene sopprimere, per denaro o per comodo, ma annullare socialmente sì. La letteratura prescrive loro un internato casalingo. Senza mai cambiare aria, alcune prigioniere scrivono a un lettore fantasma, finendo per intossicarsi con il loro stesso respiro.
Quando sei mezza bambina e mezza adolescente, non sono poi tanti i romanzi in cui si racconta che una ragazza è diventata scrittrice senza soccombere in soffitta. Louisa May Alcott, tanto per cominciare, quella angusta stanza in cima l’ha resa parte viva della casa. Ha aperto la porta e ne ha consegnato le chiavi a Jo March. Non sarà sempre una festa, non sarà sempre letteratura, tuttavia la ragazza andrà per il mondo. Si troverà, lavorando, il suo posto al sole, ma anche un angolo protetto e custode dove la società non la acceca, non la frastorna, dove scriverà infine le parole sue.




creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 20/02/2010 21:49

Scene madri 4 IL DIARIO DI ANNE FRANK

PEZZI DI CARTA 
 C’è una ragazza di tredici anni, quasi settanta anni fa, chiusa in una stanza piccola. Ha un angolo suo dove legge, scrive e racconta. Ha un’amica immaginaria che ha chiamato Kitty. Per passare il tempo, dopo i compiti sforbicia figure dai giornali, le appiccica insieme a foto e cartoline alla parete vicino al letto o sul diario. Spera di essere un giorno finalmente libera e di fare di quel diario un libro. La ragazza si chiama Annelies Marie Frank, Anne a casa, ed è la seconda scrittrice adolescente che ho conosciuto leggendo, dopo Jo March di Piccole donne. Con la differenza che era vera, Anne. Per troppo poco tempo, vera. 

Sapevo che Anne Frank faceva parte di un gruppo di otto ebrei, tra cui i genitori e la sorella, rifugiati dal 1942 in un alloggio segreto al 263 di Prinsengracht di Amsterdam, per sfuggire alla persecuzione. Sapevo che nell’agosto del 1944 i nazisti avevano saputo del nascondiglio tramite una spiata e che Anna era stata deportata al campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau prima e poi a Bergen Belsen, dove era morta neppure sedicenne nella primavera del 1945, al principio della stagione della libertà, una tra sei milioni di ebrei sterminati.

Sapevo e leggevo vicinissima, protesa. Leggevo dell’ultima volta di Anne per la strade di Amsterdam. Verso un mondo clandestino, incartata in calze e vestiti portati uni sugli altri per non dare nell’occhio con una valigia, la vita addosso più che poteva. Adesso quasi non riesco ad aprire quel libro davanti ai bambini. A scuola lo racconto, ma è l’unico che non so leggere a voce alta perché ogni frase mi spezza il cuore.

 I bambini e le bambine della mia scuola non mancano di nulla. Hanno a casa un generoso corredo per il gioco, dal curato corpo tecnologico. Hanno in classe costruzioni, pupazzetti, pentoline. A me piace quando prendono la carta, soprattutto. Disegnano, colorano, ritagliano, incollano. Giocano al giornale, al ristorante, all’ufficio, all’aeroporto, al gioielliere, alla banca. Scrivono segreti, mappe del tesoro.
 Quando ho visitato il 263 di Prinsengracht, data l’ora tarda ho avuto modo di entrare in camera di Anne quasi da sola. Oppure così è il ricordo, gli altri sono scomparsi davanti al muro gialligno con le foto degli attori, le cartoline, le riproduzioni d'arte, i ritagli di giornali illustrati. I suoi. I pezzi di carta di Annelies Marie Frank.
La scrittrice giovanissima già riscriveva per trasformare; annotava, studiava, organizzava in modo critico il suo mondo di parole. Si augurava una dose sufficiente di talento per il futuro. Tutta la scrittura di Anne risplende di futuro: nel tono, nell’atteggiamento, nel desiderio di avere parte, nell’impegno a volere testimoniare, gridare finalmente, dopo.
Sei milioni di ebrei. Il doppio, di più, per chi prova a fare il conto impossibile di tutti gli altri perseguitati. E quante canzoni non cantate, tele vuote, strade vuote. Pagine bianche che hanno perso il futuro e non sono diventate poesie, barche, palline, lettere d'amore. Non apro nessun libro davanti ai bambini, oggi. Li guardo che giocano, con pezzi di carta.



creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 09/02/2010 12:35

Scene madri 3 OLIVER TWIST

ALTRA MINESTRA

Una fame disperata conduce Oliver Twist, nove anni, (Oliver Twist; or, the Parish Boy's Progress di Charles Dickens, 1837 – 39 ) al cospetto del cuciniere della workhouse, il lager vittoriano che sfrutta il lavoro dei bambini senza famiglia. A nome di tutti deve chiedere, Oliver, una seconda ciotola di zuppa.

Suo padre, mai saputo chi sia. Sua madre si è trascinata sola fino a un anonimo orfanotrofio ed è morta subito dopo il parto. Ci va lui a chiedere altra minestra, perché tra tanti infelici hanno fatto a sorte e indovina: Oliver lascia il suo posto e attraversa il pavimento di pietra della mensa. Vorrei vedere, a nove anni, chi si sarebbe mosso di suo. Vorrei proprio, proprio vedere, davanti al rozzo che governa il pentolone chi saprebbe dire con più tragica delicatezza: - Please, sir, I want some more.
L’inserviente non crede alle sue orecchie: che cosa? E ripete, il piccolo, stupito del suo stesso ardire: please, sir, I want some more, altra minestra chiede.Tutto fila per il peggio, ma Oliver ha guadagnato definitivamente il ruolo del protagonista. Il pubblico ammutolisce già al suo esordio, e qualora lo spettatore si mostri insensibile Oliver ripete fermo la battuta. Intanto, bastano poche righe per capire che almeno per il momento non gliene va bene una. Lo acchiappano e lo portano da quelli che comandano. Nessuno prova pietà. L’unico commento, formulato da un tizio dal candido panciotto è “ Quel ragazzo finirà impiccato “. Nessuno obietta al gentleman autore di tanta umana sintesi. Anzi, decidono di liberarsi subito del ragazzino. A chi glielo leva dai piedi il prima possibile offriranno pure un compenso. E siamo appena al secondo capitolo, di cinquantatré.
Eccolo alla ribalta, il puro, vulnerabile, intrinseco innocente che sembra fatto per le disavventure. Per fortuna, tanto gravose saranno le sue esperienze quanto mirabolante sarà il premio finale.
Il mistero della sua nascita sarà svelato, secondo quella magica formula dickensiana per cui l’eroe, di frequente affetto da solitaria deprivazione infantile, finisce con lo scoprire affinità e legami con il più estraneo degli estranei; perché tutti ci apparteniamo, tutti abbiamo un filo in comune.
Questa filosofia di fondo permette allo scrittore una gestione delle vicende rocambolesca, a strati, a rami, verbalmente dilagante, zeppa di eccessi. Calmi, va tutto bene. Tutto si sistema, e ogni cosa il suo posto prenderà.

Non una ma due forme di generosità, so di avere incontrato nel libro, e non scordo.
La prima, più immediata e sociale, è la forza buona che ristora Oliver e i suoi lettori lungo la via, incarnandosi in persone di ogni età e ceto: c’è il vecchio magistrato che lo sottrae al destino di spazzacamino; c’è il fiducioso Mr. Brownlow che se lo prende in casa senza conoscerlo; c’è Nancy, ragazza perduta che si perde per salvarlo. Questi personaggi non fanno professione di intenzioni, ma di azioni determinanti. Ti dicono che puoi scegliere di essere duramente concreto almeno quanto è dura l’assenza di compassione.
La seconda forma di prodigalità sembrava allora puramente rivolta al mio piacere di giungere alla fine del romanzo sperimentando una felice sazietà. Chiuso il libro, ero grata per avere ricevuto tanto nutrimento. Ma non è stato così semplice, non avevo fatto i conti con la ricetta di Charles Dickens. Lui ti invita alla sua tavola per sempre. Sei preso, sei suo. I personaggi e i suoi convinti lettori si appartengono a vicenda. Tu leggi, rileggi e nel frattempo ti prenoti per un’altra delle sue storie. Così, in tanti ci ritroviamo, mai paghi di un cibo di unica qualità: per piacere, Mister Dickens, altra minestra.



creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 07/12/2009 12:50

Scene madri 2 LA SIRENETTA

Pagine che fanno strada, formano il gusto, orientano l’indole e il respiro. Autori, personaggi e scene che nel tempo inducono a un ricalco, dunque generano scrittura. Letture tra infanzia e adolescenza, in Sardegna, dal 1968 in poi.


LA STRADA DI SCHIUMA

Molte fiabe di Andersen finiscono male. La Sirenetta (Den lille Havfrue di Hans Christian Andersen, 1836 ) finisce malissimo.     
La piccola sirena per avere l’amore - e con l'amore, l’anima - salva il principe dai flutti assassini senza prendersene il merito, lascia la propria reggia, nuota tra gli orrori per incontrare la Strega del Mare, beve una pozione micidiale, perde la naturale estremità in cambio di due gambe che la martoriano, sacrifica la sua voce melodiosa in seguito al taglio della lingua. Ma dopo tanto dolore, con tutto il coraggio, alla fine non ottiene niente. Niente, niente di niente. La ragazza sirena scopre che il principe si è invaghito di un’altra e si dissolve in schiuma com'è suo ordinario destino, gettandosi dalla nave reale mentre l’adorato ignaro riposa sul cuore di una creatura fasulla e senza pregi.
Nelle ultime righe si legge che la schiuma si fa aria, che un'anima comunque l'avrà, la Sirenetta, fra trecento anni. Mai mi hanno messo in pace, né quel passaggio ulteriore di stato né il premio in capo a tre secoli. Per me la storia finiva sempre con quel funerale bianco. Sempre dico, perché l’ho letta e riletta. Con dolore. Con coraggio.

Andersen risulta dai ritratti un figuro cupo, scurovestito e segaligno; risulta, dalle biografie, scavato nell’infanzia da povertà economica e affettiva, la vita adulta scomoda a causa di amori vietati o infelici, nonostante i panni nuovi o gli amici ospitali. Le traduzioni inaugurate dagli inglesi hanno ingabbiato e vilipeso il suo talento per la trascrizione vivace e verace del parlato: ciononostante egli svetta, s’impone.Da bambino ha molto giocato con le marionette e diviene drammaturgo espertissimo: sa trasformare in personaggio non solo la persona e l'animale, ma le cose più modeste: fiammiferi, candele, posate. Andersen ha dato l'anima a tutti e subito; è una compagnia teatrale in un sol uomo. Crea il ruolo, dona parola e timbro; dà ritmo e battuta, inventa la storia, scrive, inquadra e definisce l'ambiente, letteralmente lo sa ritagliare e non a caso: è stato mirabile artigiano di illustrazioni, collage, decorazioni, silhouette.

La scelta delle fiabe preferite non dipende solo dai personaggi. Ne La Sirenetta ci sono tanti tipi di mare, e molti mi erano già cari. Una scena, però, faticavo a immaginarla. Come apparivano, dopo il tuffo, quelle spoglie schiumose? Erano creste di onde tempestose, oppure bolle deboli e sporchicce imprigionate tra gli scogli?
Nel tempo ho trovato, l'ho vista; ho visto quella scia che traccia lo scafo di una nave dietro di sé, così maestra e bianca. Adesso lo possiedo, il ritaglio mancante. È un tratto di addio, provvisorio, magnifico; è un paesaggio vorticoso, di struggimento, di speranze e di ricordi. Credo proprio che lei sia andata lì.
creato da Annalena Manca — Ultima modifica 23/11/2009 19:01

SCENE MADRI Crediti

A partire dall'ottobre 2009, ho publicato alcuni scritti sulla letteratura per l'infanzia e l'adolescenza sul portale  http://www.insardegna.eu/ 

Ho presentato alcune opere di narrativa che hanno formato il mio gusto di lettrice e favorito la mia passione per la scrittura.

Ringrazio Francesco Pigliaru, che ha accolto la mia proposta di collaborazione lasciandomi totale libertà di scelta; Anna Pireddu, che con entusiasmo mi ha insegnato tanto dell'aspetto tecnico e editoriale.

Scene madri 1 FIABE ITALIANE

Pagine che fanno strada, formano il gusto, orientano l’indole e il respiro. Autori, personaggi e scene che nel tempo inducono a un ricalco, dunque generano scrittura. Letture tra infanzia e adolescenza, in Sardegna, dal 1968 in poi.

Fiabe italiane ( Fiabe italiane, raccolte e trascritte da Italo Calvino, 1956 ) è il libro che ho letto più volte in vita mia, e anche quello che più ho condiviso; di continuo ne traggo spunti per i laboratori teatrali; ne faccio sempre  lettura a voce alta a scuola, soprattutto tra la prima e la seconda elementare.
Affascinano il vero e il magico, gli opposti pronti a darsi la mano, l'idea che l'uno non possa fare a meno dell’altro. Il re si salva grazie al più umile suddito, il contadino si fa amico il vento, il cane spelato porta al tesoro nascosto. E mille evviva al maestro narratore, il mago supremo: è di sollievo nei momenti cupi, di appoggio nei passaggi complicati, ogni tanto dice la sua. Perché insomma, chi racconta un’opinione ce l’ha.

Un giorno passò per strada il figlio del Re e a quel gran chiarore alzò gli occhi e la vide. " Chi può essere una tal bellezza in una capannuccia da contadini? ". Ed entrò in casa. Così si conobbero, e la Rosina gli raccontò tutta la sua storia,e la maledizione che le pesava sul capo.
Il figlio del re disse: - A me di quel che porrà succedere non m'importa: voi siete troppo bella per stare in questa capannuccia. Ho deliberato che diventiate la mia sposa.
Intervenne la madre: - Maestà, faccia attenzione, lei si mette in un impiccio. Rifletta un po' sul fatto che la prima volta che la tocca un raggio di sole, diventa serpe.
- Questi non sono affari vostri - disse il figlio del Re. - Mi pare che voi a questa ragazza le vogliate male.

Espressioni forbite, termini remoti o prestati dall’alto, si alternano con naturalezza a battute sgrammaticate, di risparmio, da fine giornata. La coralità la sperimentiamo dunque non solo nell’incontro con la varietà delle genti, ma anche nei modi di parlare. Parola alta, bassa, stanca, ambiziosa, spiccia, attenta; questo non allontana i bambini, anzi; quando la scrittura ama la lettura e viceversa le parole sono come i personaggi delle fiabe: si sostengono e si spiegano a vicenda: quel che non si capisce adesso lo si capirà in seguito, si impara a andare avanti, alla bella ventura.
Poi ci sono le illustrazioni. La mia preferita è sempre stata la testa di un uomo che come in molte filastrocche è contemporaneamente parte del corpo e immaginario paesaggio. La didascalia dice “ Son testa son paese case e gente”. La bocca è ponte, i capelli bosco, l'occhio rifugio, e così via. Questo fanno le fiabe, così vedono gli scrittori. Vedono e volgono insieme ai lettori, insieme.

creato da Anna Maddalena Manca — Ultima modifica 11/11/2009 14:06

Scene Madri Introduzione - I TRE MOSCHETTIERI

IO SALVO LA REGINA    Introduzione a Scene Madri

Il primo romanzo che ho letto per intero è stato I tre moschettieri ( Les tre mousquetaires, di Alexandre Dumas, 1844), in una versione ridotta che comunque superava le cento pagine. Mi ricordo soddisfazione e stanchezza, alla fine; si è trattato anche del mio primo viaggio all’estero, a otto anni. Da Parigi a Londra senza babbo, mamma o sorelle.

A un certo punto Costanza, la guardarobiera della Regina Anna, chiede aiuto a D'Artagnan. Per l’imminente ballo di corte la sovrana dovrà sfoggiare i diamanti avuti in dono dal consorte Luigi XIII; se non che i preziosi sono a Londra, poiché per amore la Regina li ha dati al duca di Buckingham. Il malevolo cardinale Richelieu, al corrente del segreto, ha promosso il ballo rinfrescando la vanità del re: “Quale occasione migliore perché la Regina possa sfoggiare i puntali di diamante che le avete regalato, maestà?”
D’Artagnan, innamorato di Costanza, si dirige verso l'Inghilterra insieme ai compagni moschettieri; ma Porthos, Aramis e Athos si perdono in agguati e duelli lungo le strade di Francia. Parrebbe che D’Artagnan resti l’unico a varcare la Manica: invece non è vero, ogni lettore lo sa. Perché ogni lettore accompagna D’Artagnan in quel viaggio. Galoppa, impreca, sale e scende da quei traghetti; ogni lettore torna in tempo e salva la Regina.

Figuriamoci se mi tiravo indietro io, bambina sarda che per conoscere qualunque altro pezzo di mondo una nave doveva prenderla per forza.
In quel mare di pagine devo avere navigato con tale agio da continuare a felicitarmi di ritrovare nelle letture seguenti certe qualità. I tre moschettieri è dinamico e corale. La lunga sequenza dedicata al recupero dei gioielli esprime forza anche interiormente cinetica; smuove, rende coraggiosi, fa fare esperienza mentale, prepara: il rischio, la perdita, lo spostamento verso ignota frontiera, si possono affrontare. Così seguiamo D’Artagnan, da provinciali migriamo, disposti all'ennesimo viaggio che occorre; lasciamo Parigi per Londra, per la Regina, per Costanza, per amore, per onore, per avventura. Qui brilla il diamante rarissimo, quello umano. Una signora indossa il vestito dell’adulterio eppure la vogliamo salva; noi lettori e lettrici accogliamo insieme a loro un mondo intero. Siamo maschili, femminili, forti, fragili, intriganti, leali; per ciascuno c’è pregio e mancanza, a cominciare dai tre moschettieri, da D’Artagnan. Epperò, messi insieme, quei quattro fanno una cosa altrimenti irrealizzabile: "Non conta quanto talento possa avere una persona, non conta quanta energia possa avere, non conta quanta integrità e quanta onestà possa avere. Se è da solo, particolarmente se è un politico, può fare ben poco”. Non è Dumas, ma Robert Kennedy. Sono parole che leggiamo nel portale del sito insardegna che ospita questa rubrica. C'entra, c'entra, D'Artagnan, se un traghetto per la Sardegna mi ha attirato a bordo.

sabato 17 novembre 2012

SEI DOMANDE PER LA SCUOLA


Domande sulla scuola alle quali un candidato al Parlamento dovrebbe saper rispondere se fosse sua intenzione rappresentare gli interessi comuni degli italiani. Non parlo dei soli elettori, perché di scuola si parla, vale a dire di tutela di diritti dei minori e di formazione del cittadino.

Sul sito dell’Associazione Nazionale Dirigenti e Alte Professionalità della Scuola ( http://anp-community.ning.com/ )  compare il risultato di un sondaggio effettuato nello scorso ottobre su un campione di insegnanti di tutti gli ordini di scuole. Mutuato da una recente esperienza francese, offre occasione di formulare alcune domande sulla scuola alle quali un candidato al seggio di Parlamento dovrebbe saper rispondere se davvero fosse sua intenzione rappresentare gli interessi comuni degli italiani. Non parlo dei soli elettori, perché di scuola si parla, vale a dire di tutela di diritti dei minori e di formazione del cittadino. 
Non ritengo i quesiti esaustivi: manca per esempio l’aspetto dei contenuti dell’insegnamento, che è fondamentale;  ho scelto questioni di quotidiana esperienza educativa e organizzativa; la mia esperienza di insegnante di scuola primaria, in corso dal 1991, è dal punto di vista anagrafico ampiamente condivisa, perché situata in una categoria professionale che pur ancora motivata si trova oppressa da una consistente prospettiva di impegno al momento oscura, poco rassicurante e molto mortificante.

Andiamo ai risultati del sondaggio. Nella premessa si legge che il questionario a 24 domande chiuse  “Gli insegnanti italiani tra gratificazione e fatica” è stato distribuito a 10.000 docenti. Hanno risposto in 1.036 ( io tra loro). Punti chiave: percezione del ruolo, attese professionali, livelli di autonomia desiderati, strumenti della valorizzazione della professione…
Un momento. Un momento. Dieci per cento di risposte? A me il sondaggio è arrivato con la posta elettronica, tramite mailing list della scuola; avevo quindi piena libertà di diffonderlo a mia volta: il numero dei docenti che poteva rìspondere all’invito era dunque variabile o mi sbaglio? In ogni caso, fosse anche il dieci per cento, è comunque poco.  Non mi sorprende. C’è un problema serio di partecipazione interna. Nella mia realtà, ogni elaborazione di iniziative e rivendicazioni è portata avanti da una minoranza di persone: ci saranno degli istituti in cui i pochi corrispondono a degli autentici rappresentanti del collegio-gruppo, ma da me quei pochi sono pochi e basta. Intorno c’è silenzio, distacco apatico, cura dell’esclusivo proprio tornaconto: bisogna cominciare a dirlo.
L’autocritica è uno dei tabù che riguardano noi persone di scuola e che persiste in questa fase, come e quanto l 'ostile incapacità di ragionare in positivo su come si possa valutare, promuovere e ricompensare l’insegnamento di qualità. Pertanto, a parte le domande a chi intende governarci in futuro, penso che ogni insegnante e ogni istituto debba trovare il coraggio di interrogarsi per suo conto; nella pratica, auspico un nuovo contratto che dia respiro e proporzioni assai più definite alle diverse categorie che lavorano nella scuola.

1. Come pensate di intervenire sugli edifici scolastici che presentano problemi di sicurezza, igiene, climatizzazione, manutenzione, carenza di spazi e arredi?

2. Qual è la vostra posizione sulla tutela degli alunni con difficoltà di apprendimento, disturbi di apprendimento, disabilità?

3. Qual è la vostra posizione sulla mancanza di una formazione continua dei docenti di carattere psicopedagogico, tecnologico, multiculturale e interdisciplinare, invece urgentemente richiesta degli attuali bisogni formativi?

4. In merito allo stato giuridico del docente, qual è la vostra posizione su: individuazione di livelli minimi garantiti; livelli progressivi di carriera; livelli differenziati di carriera?

5. Qual è il vostro progetto su queste tipologie di lavoratori della scuola: aspiranti docenti; precari; docenti con esperienza di ruolo ultraventennale e prospettiva di allungamento della fase lavorativa; supplenti e incaricati temporanei; personale amministrativo; collaboratori .

6. Quali risorse finanziarie pensate siano da destinare alla scuola pubblica per garantire un livello minimo di effettivo funzionamento su tutto il territorio nazionale?